Di autoregolamentazione pubblicitaria avevo già parlato ormai quattro anni fa nel caso Melosushi e torno a parlarne oggi per la pubblicità dell’Amica Chips: tale pubblicità, vagamente dissacrante nei confronti dell’Eucaristia, è stata sospesa dall’IAP, ossia l’autodisciplina pubblicitaria.
C’è chi grida allo scandalo, ma il codice di autodisciplina è chiaro: la comunicazione commerciale non deve offendere le convinzioni morali, civili e religiose. Se lo si firma lo si deve rispettare e la quasi totalità delle reti televisive aderisce allo IAP.
Tra l’altro, diciamocelo, chi parla di censura religiosa, di ingerenze vaticane o di assalto alla laicità se qualcuno avesse fatto una pubblicità che ironizza sulle donne, sugli omosessuali o sugli immigrati avrebbe chiesto non l’intervento dell’autodisciplina (che sarebbe stato giusto e sacrosanto), ma della procura e del codice penale.
Questo articolo però non è tanto sull’ipocrisia di chi si erge a scudo di chiunque ma poi ritiene doveroso disegnare bersagli dietro al cristianesimo, o meglio, sì, lo è, ma quando a farlo è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Infatti, alla CEDU sono arrivati ben due casi a tema: uno dalla Lituania nel 2012 e uno dalla Georgia, nel 2018. Nel primo, Sekmadienis v. Lituania, immagini di Gesù e della Madonna vennero usate per pubblicizzare una succinta linea di abbigliamento, nel secondo, Gachechiladze v. Georgia, l’immagine di una santa ortodossa viene usata per sponsorizzare in modo abbastanza allusivo dei preservativi.
In entrambi i casi si arriva ad una condanna amministrativa di poche centinaia di Euro, confermata a livello nazionale e ribaltata dall’organismo del Consiglio d’Europa sulla base del diritto alla libera espressione: addirittura, le autorità georgiane sono state bacchettate per aver messo prima la sensibilità della Chiesa ortodossa e poi i principi della Dichiarazione europea.
Ma sapete cosa non è libera espressione secondo la stessa identica corte? Dire che un uomo di circa 55 anni che fa sesso con una bambina di 9 anni è un pedofilo. Se solo questo uomo si chiama Maometto.
Nel 2018 infatti, nel caso E.S. v. Austria, la Corte ha determinato come condannare un’insegnante ad una multa per aver detto che Maometto è un pedofilo, ossia una cosa fattuale, sia ok perché il diritto alla libertà d’espressione dev’essere bilanciato con il diritto di avere i propri sentimenti religiosi tutelati. Addirittura, definire un cinquantacinquenne che fa sesso con una bambina di nove anni viene definito un attacco abusivo fondato su dati parzialmente falsi (quando in realtà è un fatto testimoniato dalle fonti più importanti dell’islam), una descrizione soggettiva e che potrebbe offendere gli altri, quindi l’Austria ha tutto il diritto per tutelare la pace religiosa di censurare quella che noi tutti sappiamo essere una verità, per quanto la Corte abbia provato a reinventare il significato di pedoflia escludendo chi ha anche rapporti con donne adulte.
Detta semplice, e senza veli: i cristiani ti tagliano la pubblicità se tocchi il momento più importante della loro fede, i musulmani ti tagliano la testa se fai notare che il loro profeta toccava le bambine.
Ormai è evidente: mettere Gesù e la Madonna nelle proprie pubblicità lo si fa perché si vuole scandalizzare, mettere un preservativo in mano a una santa a cosa serve se non a offendere i credenti? Il che va bene, ma solo se questi credenti sono cristiani. Ricordare un fatto storico relativo al profeta dell’Islam invece non è libertà, anzi, la Corte si spinge a dire che non è un fatto, altrimenti loro si offendono. E se loro si offendono la pace religiosa viene turbata, ossia succedono cose poco belle.
Sembra un vero ricatto, lo abbiamo anche visto con i roghi del Corano in Danimarca: loro si offendono, si mette il reato. Se l’islam prevede esplicitamente la sottomissione e il soggiogamento degli infedeli (Sura 9:29) a quanto pare, noi, il lavoro lo stiamo facendo tutto da soli…