Due quattro novembre fa feci un post domandandomi se ci fosse davvero qualcosa da festeggiare nell’aver mandato a morire centinaia di migliaia di giovani per… boh. Una domanda che, ben prima di me – e dell’Italia stessa – si faceva Carlo Porta che, nella celebre “a certi forastee che viven in Milan e che ne sparlen”, qui trovate una buona traduzione:
O Italia disgraziata, cosa serve andare a prendersela con i morti mentre tutto il torto di essere così stracciata è tutto di Te stessa, nemica tua giurata.
Ora, con la storia del milite ignoto, non posso che reiterare che non c’è nulla da festeggiare né da “ricordare”. C’è solo da vergognarsi e da ricordare ciò che può fare uno Stato quando inizia a farsi chiamare Patria. Altro che “fumetti senza retorica” (per quanto quello di Jenus meriti) e treni ornati.
Purtroppo l’Italia, a differenza della Germania, non è mai stata messa davanti agli orrori causati dal nazionalismo, è stato sufficiente togliere il fez all’identità nazionale, senza mai toglierle l’animo nero, per renderla di nuovo accettabile, complice anche uno studio della storia spesso risibile nelle scuole italiane.
Io non mi sento italiano. Non ho molto in comune con chi è nato a Napoli, a Firenze, a Siracusa o anche solo a Venezia, se non l’essere parte dello stesso sciagurato paese. Mi stanno anche simpatici, specie i veneti e i meridionali che sono notoriamente più caciaroni e ti fanno sentire a casa molto facilmente, ma le differenze esistono e sono tante.
Parimenti, non ho nulla di cui sentirmi orgoglioso relativamente alla mia cittadinanza. Dovrei essere orgoglioso di venire dalla patria del debito pubblico, della malavita organizzata, dell’affossamento di tutto ciò che è stato fatto di buono, del concorsone permanente, del sistema pensionistico che è più in default che no, della malagiustizia, del codice penale fascista ancora in vigore, del Paese che appena la sua locomotiva è in difficoltà si rivolta in massa contro di essa con massiccia goduria?
E no, tutto ciò che state citando prima del 1800 non vale. L’Europa era cosmopolita, specie ai tempi del Rinascimento, ma accreditarsi uno solo perché è nato in quello che è il tuo stato non ha molto senso. Sennò, potremmo parlare del francese Joseph Marie Garibaldi…
Esiste una certa comunanza tra popoli italici. Qualcuno la vive anche serenamente, come i ticinesi. Le Alpi, per quanto permeabili, sono comunque un confine importante. Ma una comunanza non è un popolo e ne abbiamo decine di dimostrazioni.
Son più popolo gli svizzeri, senza lingua né molte delle caratteristiche che definiscono la nazione odierna, che quando c’è bisogno mettono in pratica il principio “tutti per uno, uno per tutti”, che gli italiani che sventolano orgogliosi il tricolore per lo sport ma, poi, alle prime difficoltà scoprono un nuovo sport nazionale: il “daghela ai lombard”.
Molti lombardi l’hanno dimenticato – d’altronde c’è anche una ragione se siamo fottuti – ma io no: ricordo bene che, mentre dalla Germania arrivavano i voli sanitari a Malpensa, dall’Italia arrivavano insulti, ingiurie, lezioncine su come gestire la nostra sanità e spiegazioni di come il nostro egoismo capitalista neoliberista e l’eccesso di lavoro fossero alla base del nostro impestare il Sud, al quale dovevamo risarcire 60 miliardi per le chiusure, e che se ci fossimo adeguati al loro modello invece staremmo tutti bene.
E ricordo altrettanto bene che si dipingeva la Germania come un mostro perché non voleva dare i soldi gratis coi Coronabond mentre si cantava l’inno nazionale dai balconi e che se provavi a spiegare che, forse, un residuo fiscale di 50 miliardi l’anno da anni è un qualcosa che non aiuta a finanziare una buona sanità (e infatti quella lombarda è sottofinanziata) ti venivano a spiegare che l’Italia stava investendo BEN 1 miliardo per aiutare la Lombardia. In un solo colpo capisco i risultati delle Invalsi e perché il nostro Gianni non voglia tornare in politica.
In ogni caso, parlavamo di identità, e del perché il 4 novembre mi disgusta, oltre al fatto che celebri una carneficina e uno stato che su questo sangue si alimenta. E dicevamo che non mi sento italiano. Allora, cosa mi sento?
La risposta è… dipende!
Se dovessi definirmi in un aggettivo direi lombardo. Ma è solamente una dimensione nazionale: in Lombardia – concetto leggermente diverso da quella amministrativa – non mi sento forestiero in quanto ad architettura, modi e usanze.
Ma se dovessi dirvi qual è la mia Patria, forse ancor meglio Heimat, sarei ben più conservatore e la incentrerei sulla zona del milanese dove vivo.
In tutto ciò, aggiungiamoci un certo grado di collegamento con gli amici mitteleuropei con cui abbiamo convissuto per anni, con gli altri popoli della zona padana, con gli italiani sub-appenninici, con gli europei e con il resto del mondo occidentale.
E, ricordiamo, che siamo in un mondo sempre più globalizzato, dove locale e globale vanno a braccetto, e dove sono invece le identità rigide nazionali ad essere sempre più inadeguate.
Perché, come avrete notato, io non vi ho dato alcun confine per le entità di cui parlo, perché non ha senso darne. Le identità vanno via via diminuendo, un po’ come la gravità di un pianeta, sino ad essere irrilevanti, e tracciarle ha senso solo in pochi e limitati casi.
Queste identità fluide e locali sono state a lungo la normalità, in un contesto di cosmopolitismo non indifferente, specie per epoche in cui non c’erano treni, auto e aerei. Poi è arrivato il nazionalismo a dirci che dovevamo definirci solo questo, quello o quell’altro, odiare chi era dall’altro lato della barricata e batterci la spada sul petto dicendoci pronti alla morte per questa nuova creazione romantica.
Oggi, 4 novembre, vediamo una di queste masturbazioni collettive con la spada. Ma, oggi, abbiamo gli strumenti per contrastarle: le identità locali e fluide.