“Nessun uomo è un’isola… E così non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te”, John Donne fine 1500.
Hemingway intitolò “Per chi suona la campana” uno dei suoi libri più riusciti e rese celebre la massima: ogni uomo morto è una perdita per l’umanità intera.
In questo senso anche la morte di George Floyd è una perdita per tutti noi.
Dopodiché c’è il principio di realtà che non inficia il valore della massima ma che la colloca al suo posto di principio universale, salvo le singole evenienze:
George Floyd era un cittadino americano nero, aveva un passato molto tribolato: 8 arresti per droga fra il 1997 e il 2005, con 41 mesi di prigione. Una condanna a 5 anni per rapina a mano armata nel 2007. L’arresto fatale del 25 maggio scorso fu provocato dalla denuncia del tabaccaio pagato da lui con banconote false (20$!). Non un cittadino modello.
Ma è pur vero che Floyd, uscito dal carcere aderì alla Ressurection Houston, una delle tante “chiese” cristiane statunitensi, fino a prestare sevizio come body guard nell’Esercito della Salvezza. Il suo ultimo impiego era quello di fornire sicurezza a un bar di Minneapolis.
Lascia 5 figli, per fortuna non indigenti: il sito GoFundMe, appositamente costituito per le spese funerarie e per provvedere al futuro dei parenti ha già superato 13 milioni di dollari.
Dall’altra parte c’è il poliziotto Derek Chauvin: in precedenza aveva ucciso un sospetto, partecipato ad una sparatoria risultata fatale per un altro e ricevuto almeno 17 lamentele durante i suoi quasi 20 anni di servizio al dipartimento di polizia locale. Un poliziotto violento?
La morte di Floyd ha scatenato indignazione, cortei, prese di posizioni in tutto il mondo occidentale, se ne sono astenuti tutti gli altri cittadini del mondo.
Le degenerazioni, peraltro consuete e ripetitive, dei neri, fatte di violenze e saccheggi che ne sono conseguite in America e altrove, sono state rubricate come reazione di una parte del popolo americano ed europeo indignato e offeso dal razzismo che i bianchi americani (63% del totale) operano nei confronti dei concittadini neri (37% del totale): discriminazione razziale bella e buona. Gli americani bianchi sono razzisti.
La vicenda si è immediatamente trasferita sul livello politico e serve ai democratici americani per indebolire ulteriormente Donald Trump in vista delle presidenziali di novembre.
La reazione concertata contro il razzismo americano lascia qualche dubbio, visto che negli ultimi 20 anni la maggiorana degli americani ha liberamente eletto un presidente nero e due segretari di stato (ministri degli esteri) altrettanto neri, visto che i vertici di molteplici istituzioni statunitensi sono affidati a neri.
Fermo rimanendo che sacche di idiozia razzista esistono in America come nel resto del mondo, a me pare che il problema sia più culturale e sociale che razziale: i neri (ma anche i bianchi) acculturati arrivano ai vertici di imprese e di istituzioni anche di vertice assoluto. La cultura e le competenze non te le regala nessuno, sono un impegno quotidiano faticoso, costante e durano l’intera vita. I neri (ma anche i bianchi) non acculturati fanno meno fatica ma ottengono una qualità di vita molto meno appagante e se la prendono con chi, a fatica, riesce a campare meglio.
Per quanto offrono le statistiche l’incultura è più presente fra gli americani neri che fra quelli bianchi, il tasso di incarcerazione dei bianchi americani di 393 ogni 100.000, quello dei neri di 2.53, pare esserne la logica conseguenza al di là del colore della pelle.
Infine le discriminazioni non si limitano al colore della pelle (razziali) ma si allargano alla intolleranza religiosa e a quella politica. Nel silenzio generale (compreso quello delle gerarchie vaticane) da decenni sono assassinati migliaia di uomini e donne solo perché cristiani: nessuna manifestazione di condanna per gli assassini (neri in Africa) nelle piazze dell’Occidente. La Cina perseguita da decenni gli Uiguri e da anni reprime le proteste libertarie di Hong Kong: nessuna manifestazione in Occidente.
La Birmania (Myanmar) perseguita l’etnia Rohingya per motivi religiosi: nessuna manifestazione in Occidente. Per non parlare del costante rancore razziale di cui sono oggetto gli ebrei (che piacciono alla sinistra molto più da morti che da vivi): nessuna manifestazione delle piazze occidentali. L’elenco è purtroppo lungo oltreché doloroso e comprende le discriminazioni islamiche contro le donne, quelle talebane contro la scuola, quelle venezuelane contro il metodo democratico, quelle iraniane contro i diritti umani, e così di seguito, ma indica un chiaro indirizzo: i dimostranti occidentali vanno in piazza a senso unico e purtroppo solo contro i difetti della propria cultura, mentre non muovono un dito contro le ben più gravi aberrazioni delle culture altrui.
Lo sfondo politico che sottende questa attitudine mi pare quello di sovvertire con ogni mezzo (violenza e antirazzismo peloso compresi) le strutture democratiche occidentali (in particolare il baluardo di riferimento che oggi sono gli USA) per sostituirvi un diverso sistema che non si sa bene che cosa potrebbe essere: l’essenziale è che sia diverso!
Voglio dire in conclusione che l’Occidente, Italia compresa e particolarmente compromessa, corre gravi pericoli senza che la maggioranza degli occidentali reagisca a propria difesa, anzi più o meno volutamene ignorando il problema.
Siamo di fronte ad una “allegra apocalisse”?